Ogni uomo è come l’erba e tutta la sua gloria è come un fiore del campo. Secca l’erba, il fiore appassisce.
(Isaia 40,6)
Steso s’una barella in un corridoio
dai riflessi antisettici blu linoleum, osservo un’intera gerarchia
sanitaria mossa dai ritmi dettati da una triage colorata, riflesso di
una meccanica a me ignota.
Attendo referti ematici.
Incrocio occhi d’altri pazienti,
tremiti di sopracciglio, smorfie tra labbra e zigomi.
Uno sferragliare di tende e quinte di
metallo e stoffa, che separano dolori, agonie, solitudini variamente
anestetizzate, mi sveglia ogni qualvolta cerco di riposare.
Trafiggono l’aria satura di
disinfettante domande ad alta voce, risposte flebili, risa da cambio
turno, passaggi di consegne diteggiati su tastiere sottomonitor,
troneggianti nel centro dell’ambulatorio del prontosoccorso.
Chi può, si consola parlando al
cellulare con qualcuno dall’altra parte, da un’altra parte, oltre
la sala d’attesa; una donna molto anziana si rivolge ad
un’immaginario qualcuno nell’angolo a lei assegnato, dove una
notte senza sogni l’attende.
Il tempo, qui, tra dolori e terapie,
interventi d’urgenza, nervosisimi del personale pressati da
overdosi di caffeina e sigarette, fintamente celati dietro maschere
di attenzioni e sollecitudini, ha un suo scorrere impreciso,
asimmetrico, disequilibrato, così ingiusto da tenerci in pugno come
pagliuzze di fieno di diverse lunghezze, in balia della cieca
estrazione d’un destino di protocolli e burocrazia.
La parete vuota, davanti a me, è un
bianco d’ossa, una pavane di calce spenta dove immagino un
crocifisso che mai più sarà appeso in ossequio alla laicità,
questa morta espressione, infelice simbolo di vacuità, lemma
dolciastro, sinonimo politicamente corretto di un amaro ateismo.
♱ servo inutile♱
Nessun commento:
Posta un commento